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Boom petrolifero in Uganda: chi ci guadagna e perché

da | Feb 26, 2022 | Lifestyle

L’Uganda, Paese dell’Africa orientale con un’economia non certo florida e con un ampia fetta di popolazione ancora impossibilitata a godere stabilmente di un bene primario come l’acqua potabile, potrebbe presto vivere un incredibile rilancio. Il motivo, o il merito, sarà di quella fonte energetica che ormai da molti anni i media dicono stia per esaurirsi, ma di cui si trovano sempre nuovi giacimenti: il petrolio.

Un boom a lungo tempo rimandato

L’esistenza di notevoli risorse petrolifere in Uganda era nota già da 16 anni, ma per tutto questo tempo alcuni fattori hanno impedito che venissero adeguatamente sfruttate: la denunciata corruzione dei funzionari pubblici e la lentezza dei meccanismi burocratici hanno, volutamente o meno, sempre rimandato il momento in cui sarebbe iniziate le perforazioni. Vi è stata anche la prudenza di politici di alto profilo come l’ex governatore della Banca centrale dell’Uganda, Emmanuel Tumusiime-Mutebile, che a un certo momento minacciò addirittura di dimettersi se non avesse avuto la garanzia che lo sfruttamento delle risorse di “oro nero” sarebbe andato a beneficio della stabilità macroeconomica del Paese, oltre a quello che gli introiti avrebbe dovuto essere stati trasparenti e usati per migliorare le condizioni dello Stato.

Mutebile è venuto a mancare lo scorso 23 gennaio ed è stata una grave perdita per il mondo finanziario e politico dell’Uganda, perché era benvoluto e rispettato come economista sia in patria che all’estero. Due anni fa aveva messo in guardia dal pericolo che correvano gli ugandesi di indebitarsi troppo sperando di coprire le spese con l’imminente arrivo del petrolio.

Chi è coinvolto nell’estrazione dell’oro nero

Mutebile aveva ragione ad essere prudente: lo sfruttamento vero e proprio non inizierà prima del 2023, perché si tratta di un progetto estremamente vasto e complesso. Infatti non c’è solo da scavare e pompare greggio, ma bisogna posare le condutture per portarlo fino al punto in cui verrà imbarcato e spedito altrove: 1400 chilometri di tubature fino alle coste della Tanzania sull’oceano Indiano.

A metterci i soldi e le competenze sono due giganti del settore, i francesi di TotalEnergies e i cinesi di CNOOC (China National Offshore Oil Corporation), che hanno concluso con l’Uganda un accordo da 8,9 miliardi di euro. Dopo lunghe trattative col presidente ugandese Yoweri Museveni, si è deciso che il 60% della produzione petrolifera sarà destinata all’esportazione e l’altro 40% rimarrà al mercato interno o regionale.

Il rischio ambientale e umano

I giacimenti petroliferi si trovano nei pressi del lago Alberto, al confine con la Repubblica Democratica del Congo. Per arrivare al mare con le condutture bisogna disboscare, scavare e togliere di mezzo case e persone: secondo le associazioni ambientaliste, sarebbero quasi 12mila persone a dover traslocare altrove: ma dove? Si rischia una crisi umanitaria.

Si sono quindi già fatte sentire le organizzazioni che combattono per il rispetto dei diritti umani. Senza parlare, poi, delle evidenti implicazioni del petrolio come combustibile inquinante. L’amministratore delegato di TotalEnergies Patrick Pouyanne ha dichiarato che la sua società sa benissimo in cosa consiste la questione ambientale ugandese e che nel mettere in atto il progetto rispetteranno il delicato equilibrio naturale del Paese. I giacimenti si trovano nel parco naturale di Murchinson Falls, praticamente il polmone verde dell’Uganda con più di 500 specie di animali, persino alcune via di estinzione.

Per approfondire: https://strumentipolitici.it/uganda-francesi-e-cinesi-investono-nel-boom-petrolifero-del-paese-africano/




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